“Her Deepness“, ovvero “Sua Profondità“. Questo è il soprannome datole dal New York Times. Ed è stata la sua passione per gli oceani a farle compiere imprese mai fatte prima ed esplorare gli angoli più remoti del pianeta – vantando più di 6000 ore di immersione alle spalle – con l’obiettivo di conoscere gli abissi e trovare soluzioni per salvarli.
Sylvia Earle è stata oceaonografa ma anche ingegnere, scienziata e fondatrice di diverse associazioni che combattono per salvaguardare gli oceani tanto da guadagnarsi la nomea di “leggenda vivente” (secondo la Biblioteca del Congresso) e di “eroina del Pianeta” (per il Time). E per spiegarci perché ci dovrebbe interessare lo stato di salute degli oceani, nel 2009 ha tenuto una famosa Ted Conference, in cui ha parlato della sua pluriennale esperienza:
Sono tormentata dal pensiero di quello che Ray Anderson chiama “i figli del domani”, che chiederanno perché non siamo intervenuti a salvare gli squali e i tonni rossi e le barriere coralline e l’oceano vivente, quando eravamo ancora in tempo. Bè ora è quel momento. (…) La salute dell’oceano equivale alla nostra salute. E io spero che la ricerca di altri terrestri da parte di Jill Tarter includa i delfini e le balene e altre creature del mare, in questa sua missione di trovare vita intelligente altrove nell’universo. E io spero, Jill, che un giorno troveremo segni di vita intelligente anche tra gli esseri umani di questo pianeta. L’ho detto? Mi sa di si.
La sua storia inizia nel New Jersey, nel 1935, ma è con il trasferimento in Florida che comincia la sua passione per l’oceano. È ancora una ragazzina ed è già una delle prime donne a fare immersioni – “fu la prima volta che vidi dei pesci nuotare in qualcosa che non fosse riccioli di burro e fettine di limone“. La passione per la vita marina si tramuta presto in una laurea in Biologia marina e un dottorato di ricerca in Botanica (dedita allo studio delle alghe). Nel 1968, raggiunge i 1000 metri di profondità in un’immersione solitaria, con il sommergibile Deep Diver, mentre il sogno di abitare nell’oceano si realizza con il progetto Tektite, nel 1970, grazie a cui vive per 2 settimane in una struttura subacquea a 15 metri sotto il livello del mare, assieme ad altre quattro compagne, per studiare la flora marina. In un’intervista del National Geographic racconta:
Non c’erano neanche astronaute donne nella NASA al tempo, e alla fine toccò a James Willer, il capo della missione, prendere una decisione. Probabilmente aveva un buon matrimonio, una brava madre, e un bel rapporto con le donne e la sua conclusione fu: “Se metà dei pesci sono femmine, credo che possiamo sopportare la presenza di un paio di donne nella missione”. Alla fine, secondo gli psicologi che ci osservavano 24 ore su 24, siamo andate incredibilmente d’accordo. Ci siamo divertite, e abbiamo passato più tempo in acqua degli altri team. Non perché dovevamo dimostrare qualcosa, ma perché lavoravamo a dei progetti che davvero richiedevano la nostra presenza in acqua per tutto quel tempo, osservando gli animali nel loro habitat. Alcuni pensarono che volevamo soltanto dimostrarci all’altezza degli uomini. Ma per favore! Era l’ultima cosa che avevamo in mente. Stavamo solo cercando di fare quello che eravamo lì per fare come scienziate. Il fatto che eravamo donne era solo un dettaglio.
Nel 1979 invece, lascia le sue impronte sul fondale delle isole Hawaii, a 381 metri metri di profondità, camminando grazie a una muta speciale. Grazie al suo lavoro di ricercatrice per la Harvard University e l’incarico di direttrice del Cape Haze Marine Laboratory in Florida, ha modo di esplorare i fondali marini dalle Galàpagos alla Cina e nel tempo, ha fondato imprese e associazioni con l’obiettivo di costruire macchine per esplorare gli abissi. Ha poi capitanato per cinque anni la spedizione Mari Sostenibili del National Geographic ed è stata la prima donna a raggiungere posizioni come chief scientist della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) ed explorer-in-residence della National Geographic Society.
Durante la Ted Conference, Sylvia ha ricordato le parole del poeta Auden: “migliaia hanno vissuto senz’amore, nessuno senz’acqua“. Dopodiché, ha ricordato che “il 97% dell’acqua terrestre è oceano. Se pensate che gli oceani non siano importanti, immaginate la Terra senza”. Facile. Niente oceani, niente vita. Siamo sempre connessi con l’oceano – tramite l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo – anche se non ne siamo sempre consapevoli. Senza il blu del mare, non ci sarebbe il verde della terra.
Abbiamo, noi umani, quest’idea che la Terra- tutta: gli oceani, i cieli – sia così vasta e resistente, che non importa quello che le facciamo. Questo poteva essere vero 10.000 anni fa, o forse ancora 1.000 anni fa, ma negli ultimi 100, specialmente negli ultimi 50 anni, abbiamo prosciugato il patrimonio, l’aria, l’acqua, la fauna, che rendono possibili le nostre vite.
Il suo messaggio, dunque, risuona forte e chiaro:
Gli elefanti sono intelligenti, i delfini sono molto intelligenti, probabilmente si chiedono cosa sono le stelle e che cosa c’è nell’oceano sotto di loro, nelle profondità dove non possono arrivare trattenendo il respiro. Noi possiamo scoprirlo, abbiamo quel margine. Abbiamo anche la responsabilità, abbiamo il dono e la necessità di usare quella conoscenza saggiamente, per il bene di tutta la vita sulla Terra. La vita continuerà a esistere, con o senza di noi. Ma se vogliamo avere un futuro lungo e duraturo per la civiltà, per i nostri figli e le persone a cui teniamo, dobbiamo davvero accelerare questo processo di guarigione del danno che abbiamo già fatto al mondo naturale. Dobbiamo proteggere le foreste, le aree dell’oceano che sono ancora in buone condizioni, la barriera corallina, le profondità marine, e risanare quello che possiamo. Questo è il nostro momento: non lo è stato prima, e forse non lo sarà più per poter garantire un futuro lungo e prosperoso alla specie che molti umani amano di più, cioè…gli umani.